Vi
riporto di seguito un pensiero scritto da Marco Colonna in merito al concerto
del 18 luglio sorso.
La capacità di una cultura di identificare il dolore, viverlo e farne una
rappresentazione cosciente e sociale, è sintomo di una grandezza, di una
maturità che presagisce valore e capacità di esistenza. Capita perciò, che un
gruppo di musicisti possa identificarsi in una cultura per salutare, ad un anno
dalla sua violenta scomparsa, un amico, collega e compagno: Pierpaolo
Faggiano.
La cosa che risulta evidente è che esistano ancora musicisti (di cui mi
fregio di fare parte, probabilmente mio malgrado) in cui la dimensione
collettiva è ben più importante dell'affermazione individuale. Ho scoperto come
il dolore sia parte integrante di un processo di collettivizzazione forte e non
ideologico. Tanto da farmi pensare che il nostro essere Europei cede il passo ad
una ben più profonda capacità di relazionarsi a se stessi come esseri umani. Il
Jazz da subito ha posto alla sua base il meticciamento culturale, per proporre
sintesi sempre nuove e capaci in maniera rapida e repentina di rivoluzionare i
punti di vista e le analisi. Appropriarsi di un linguaggio identificato
ideologicamente con il popolo afroamericano, renderlo attuale e profondo in
maniera onesta e vera, tanto da tracciare nella sua storia i gradi della nostra
sensibilità è risultato che non andrebbe sottovalutato.
Non andrebbe sottovalutato il lavoro di centinaia di musicisti che
sperimentano linguaggi e forme nel pieno rispetto e adorazione di una tradizione
oramai secolare, capace di mettere in relazione molti dei linguaggi costruiti
nel novecento musicale , in maniera organica e viscerale. Sottovalutare chi si
occupa di forzare le regole del mainstream attuale è di per se una negazione dei
valori fondanti di questa musica, di cui mi sento almeno in parte, attore
contemporaneo.
Mi viene da pensare come in una cultura i riti funebri siano a volte la più
alta realizzazione dei valori di bellezza, uso e trasformazione. Nell'esperienza
vissuta per salutare il caro Pierpaolo, tutto questo si è realizzato attraverso
la mimesi completa ai valori fondanti in cui ci identifichiamo.
Concepita in maniera amicale, dai musicisti per i musicisti, senza nessuno
scopo commerciale e senza interessi in gioco, la performance è stata in qualche
maniera esemplificativa del nostro essere emotivo e intellettuale. Il poeta e
musicista Vittorino Curci ha aperto con le sue parole e la sua voce profonda,
terrena e solare, così simile al suo ambiente di campi di ulivi e arida terra
rossa, per accompagnarsi al flebile ed instabile suono del suo contralto, tanto
umano da proiettarci quasi nella fragilità del nostro essere vivi. In un
abbacinante contrasto che ci ha portato tutti, come guidati da una mano maestra
(in questo noi mediterranei ci riconosciamo nella nostra essenza africana).
Subito dopo ho avuto l'onore di suonare con i maestri Marcello Magliocchi e
Gianni Lenoci. Ovviamente lo sguardo non può essere così critico e analitico
essendo io uno dei musicisti. Ma l'impressione (che vorrò verificare appena le
registrazioni potranno essere ascoltate) è che naturalmente ci si sia trovati a
condividere un universo di suoni in cui la densità fosse materia architettonica
ed il suono respiro di insieme. Qui la componente dell'incontro diviene
fondamentale. Incontro di realtà distanti geograficamente e dal punto di vista
generazionale, messe a confronto con il medium profondo della condivisione di
una condizione emotiva. Comunità. Il senso profondo di appartenere ad una
comunità, che condivide molto fra pensieri, riflessioni, azioni.....Ancora una
sensazione forte in tal senso.
Ancora al maestro Vittorino Curci il compito di traghettarci verso l'ultimo
set della performance che vedeva Angelo Olivieri, Pasquale Innarella, lo stesso
Vittorino Curci e Ivano Nardi.
Essendo stato di questo momento anche spettatore, mi sento ovviamente più a
mio agio a parlarne in maniera analitica.
Un impianto tonale aperto ed instabile, ma con un forte polo attrattivo, un
senso del ritmo molto più accentuato e “jazz” del nostro set, polifonia
primitiva in cui il timbro e le linee melodiche si attraversavano in maniera
esplosiva, dando l'impressione di essere un delicato equilibrio di scontri
violenti. Il tutto concentrato e convincente senza nessuna voglia di prevalere
solistico, senza nessun trucco di maniera (che ovviamente non manca quasi mai in
quello che comunemente si chiama musica improvvisata), una “second line” furente
e umana, pervasa dall'instabilità di Vittorino e dal suono pastoso del tenore
del caro Pasquale. Il ritmo sospeso e sognate di Ivano, capace come di consueto
di definire lo spazio in respiri infiniti e la lama lucente del suono di
Olivieri...Tanto per essere poetici nella descrizione di ciò che è
successo.....Analiticamente pareva evidente proprio la derivazione che un gruppo
di fiati in questo ambito musicale trae da linguaggi archetipi del jazz, e da
(indissolubilmente) la visione afro-oratoria di Albert Ayler.
Come dire abbiamo le nostre funzioni religiose. I nostri inni, le nostre odi.
Abbiamo introiettato lo spirito di qualcosa di antico, ne siamo parte integrante
in quel calderone meticcio che chiamiamo jazz.
Ho notato che l'improvvisazione finale, che ha coinvolto tutti i musicisti è
stata una sorta di proposta al futuro. Una lunga improvvisazione, in cui ognuno
di noi ha percepito una grande sintesi e forza, quasi una proposta, una
soluzione delle esperienze precedenti.
Il nostro amico Pierpaolo si è tolto la vita un anno fa. Violentando il
nostro rimanere qui, a cercare di capire un gesto, un'azione
incontrollabile.
La possibilità che Giusy ed Adele ci hanno regalato, promuovendo la
performance di cui stiamo parlando è stata quella di capire almeno cosa noi non
vogliamo essere e cosa realmente siamo.
Noi siamo una grande cultura, che resiste ai moti scialbi di questa epoca
oscura, che resiste all'abbrutimento e alla scelleratezza di un ambiente
musicale...e lo fa con la poesia, con il canto, con l'essenza stessa del nostro
appartenere alla genia dei musicisti di jazz.....
Jazz....Non nero, non europeo, ma umano. Capace di piangere il proprio
dolore, trasformarlo e vincerlo, trasformandolo in bellezza, in infinità. Noi
siamo parte di qualcosa di grande. Noi siamo una grande cultura. Sarebbe un
grave errore sottovalutarlo.
Marco Colonna