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Na strende m'agghje 'ndise atturne o core / de fueche. Na u fa cchjù, ca pozze more. Da “Nu viecchju diarie d'amore” di Pietro Gatti

venerdì 11 gennaio 2019

Il Castello di Vito Elia

Foto matteobigi
Egr. Direttore,
seguo con autentica sofferenza le vicissitudini che accompagnano la parte più antica e la torre merlata del castello ducale di Ceglie Messapica, la mia amata città natia. La mia viva speranza è che veramente ora si sia finalmente compreso che non è più concesso attendere altro tempo, perché tutto il complesso castellare venga messo in sicurezza, evitando altri nuovi crolli e sottoponendo a restauro un patrimonio immobiliare che non è solo dei cegliesi, ma che appartiene a tutti coloro a cui sta veramente a cuore non solo la particolare architettura del manufatto fortificato, ma la sua lunga storia, scritta attraverso il procedere dei secoli. 
Io credo di essere tra i pochi fortunati a cui è stato concesso l'onore di salire sino in cima alla torre merlata, molti e molti anni or sono, ciò che allo stato delle cose non è più possibile ad alcuna altra persona. Anche per questa amara constatazione, ritengo sia giunto il momento di fare in fretta per regalare ai cegliesi e al movimento turistico un altro pezzo consistente del maniero che, ne sono certo, oltre a rappresentare un ulteriore potenziale contenitore culturale futuro, saprà dare un contributo importante alla città di Ceglie, per
Foto Lorenzo Melle
divenire sempre più attraente. Desidero, anzi voglio, fortissimamente voglio ripetere l'esperienza vissuta molti anni addietro, risalendo in cima alla torre dove, posso garantire, ci si sente proiettati nel cielo infinito. Ma questa volta lo voglio fare pagando il biglietto, come ho fatto ripetutamente, visitando le più celebri torri italiane, da quella senese di Piazza del Campo a quella pisana di Piazza dei Miracoli, solo per citarne alcune. Pagare il biglietto, per salire in cima alla torre, è doveroso ed è una soluzione ottimale irrinunciabile, per procacciarsi risorse per un'altrettanta irrinunciabile manutenzione ordinaria e continua nel tempo.
E' per queste motivazioni che ho pensato bene di dedicare a tutti i cegliesi un mio modesto scritto aggiuntivo, la cui enfasi letteraria altro non vuole che esaltare la sensazione di inenarrabile meraviglia provata da chi scrive in cima alla torre merlata, nella speranza che tutto ciò funga da catalizzatore di un fare che, è mio auspicio, accenda sino in fondo le energie di tutti i cegliesi, e delle istituzioni, verso un improcrastinabile immediato restauro del più insigne dei monumenti cegliesi, in cui è possibile riscontrare buona parte del nostro Genius loci.
L'occasione mi giunge propizia per augurare a Lei e a tutti i cittadini cegliesi, nessuno escluso, un meraviglioso anno 2019.

Vito Elia

In cima alla torre merlata del Castello ducale di Ceglie Messapica
(tra sogno e realtà)

Foto Alberica Suma
Sono ormai trascorsi quasi cinquant'anni dal giorno in cui l'allora mia fidanzatina lasciò, unitamente alla sua famiglia, l'appartamento situato proprio sopra l'ingresso del castello ducale di Ceglie Messapica, per potersi trasferire in altra abitazione della medesima città. Ora che ci penso, chissà quante volte ho fatto su e giù per quelle scale, quelle lunghe e ripide scale che, partendo dal cortile interno del castello, e poggiando su una delle sue parti più antiche, portano a quella dimora. E chissà quante volte ho mirato e contemplato ogni angolo del vecchio maniero. Chissà quante volte mi sono chiesto cosa vi fosse al di là della vetusta parete della torre normanna e chissà quante volte ho fantasticato su cosa avrei potuto ammirare, stando sulla vetta della torre merlata, proprio in cima al punto più alto di città, dove nessuno o quasi ha mai osato.
E' vero, a volte i sogni diventano realtà, ma occorre crederci, occorre perseveranza ed io ci ho creduto e perseverato. Mi spiego. Per quanto lunghe e verticali e mi portassero dalla mia amata, salire quelle scale ripetutamente non mi è più bastato. Poco per volta, ho avvertito l'insorgere di un desiderio, che è andato crescendo salita dopo salita, alzata dopo pedata, sino a divenire un'ossessione, per carità, una
Foto Domenico Demitri
piacevole, irresistibile e seducente ossessione. Quella torre merlata, che domina l'urbe messapica e il territorio tutt'intorno a perdita d'occhio, tanto amata ed ammirata dai cegliesi, appariva ai miei occhi tanto misteriosa quanto irraggiungibile, un tabu', insomma un sito interdetto, di una interdizione insopportabile non solo per me, ma credo, senza timore di essere smentito, per l'intera cittadinanza. Eppure, quella torre merlata era lì, ed era come stampata da secoli negli occhi e nei cuori tutti dei cegliesi, come una cosa propria che ci apparteneva, ma paradossalmente lontana nella sua misteriosa maestosità, quasi fosse irraggiungibile dimora degli dei.
Si sa, quando si è giovani, spesso i tabù finiscono per cadere, ma bisogna crederci, occorre volerli infrangere, mettendosi in gioco. Io a tutto ciò vi ho ottemperato.
 A quel tempo, ad abitare una delle parti padronali del castello, ormai quasi disabitato, vi era ancora una coppia di attempati signori. Non una coppia qualsiasi, di umili natali, ma una coppia entro cui scorreva aristocratico sangue, quello dei Verusio, nobile casato napoletano ed ultimi possessori, in ordine di tempo, dello storico maniero.
 Ebbene si, devo proprio a quella nobile coppia se mi è stato possibile ciò che prima poteva sembrare assolutamente impossibile. E lo stato d'animo d'un colpo s'è fatto di impazienza, di ansia di scoperta, di trepidazione diffusa, persino di sogno ad occhi aperti. Sapere di stare sul punto di compiere qualcosa al di fuori dell'ordinario, in quel contesto storico-ambientale, personalmente mi dava la netta sensazione di non starci più nella pelle. Pensate, un tabù stava per essere infranto, quella torre, alta ed irraggiungibile agli occhi miei, e non solo miei, stava per essere raggiunta e domata, quasi fosse alta vetta di montagna.
Foto Gianluca Laneve
Se la memoria non mi inganna, saremo stati in tre, io, la mia fidanzatina A. e suo fratello C. ad avere il sommo piacere di compiere l'impresa. Esatto impresa!, quantunque si trattasse di una operazione di una scontata normalità per qualsivoglia altro luogo, qui la cosa acquisiva il sapore di una vera e propria impresa, riservata a pochi intimi. E già fantasticavo, ripeto, sognavo ad occhi aperti, pregustandone la eccitante avventura. Come per incanto, sinestesia diffusa attraversava una dopo l'altra le stanze del maniero, come attraversare secoli di storia locale, ali ai piedi, senza far rumore, risucchiati da due avvolgenti ali festanti di casati nobiliari, bucando spazi e luci d'altri tempi, come in una favola infinita.
Così, se a spalancarci le porte v'erano stati i Verusio, ecco apparire nel primo tratto da un lato i Pagano, dall'altro i Lubrano, quindi a seguire i Sisto y Britto, ma ecco ancora Svevi e Angioini, tra un tripudio di stendardi e stemmi araldici, di gonfaloni e coccarde, di scudi ed armature, di merletti e drappi d'oro, di seta jacquardati, in un'atmosfera solenne, ma festosa al tempo stesso, sublimata da soavi note e canti celestiali di stuoli di dolci creature, al nobil comando di Lionardo Leo, così, lungo tutto il nostro lento ma fluido e ovattato procedere, verso il cielo. No!, non eravamo soli nella nostra ascesa verso quell'olimpo nostrano, ovunque presenze palpabili, tra effluvi di inebrianti essenze e l'eco di voci remote eppur vicine, sotto una pioggia vellutata di petali di rose, sino all'imbocco dell'ultima rampa di scale, dove un fascio di luce sempre più fitta prendeva, poco alla volta, posto alle ombre e luci d'un chiaro stampo caravaggésco, restituendo il volto splendente d'Aurelia Sanseverino, la nostra Venere, l'immeritata dea della nostra lucente Kailia.
Finalmente, sfolgorante è l'approdo, il parto, nel punto  più alto, in cima al colle più alto di città, come sputati fuori da un opercolo, come feti eruttati dal ventre materno, là, dove finisce il possente maniero e comincia il celeste soffitto, l'immenso, lo sterminato, l'etereo cielo, entro cui si scaglia, gagliarda e padrona, la bella torre merlata, fin sopra la croce più alta dell'urbe antica.
E' lì che, volgendo a destra e a manca e su e giù, i miei occhi, stupiti e rapiti, si sono d'un tratto illuminati d'immenso.
Goduria allo stato puro, in sinestesia multi sensoriale, incommensurabile, totalizzante.
L'apoteosi.

Vito Elia