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Na strende m'agghje 'ndise atturne o core / de fueche. Na u fa cchjù, ca pozze more. Da “Nu viecchju diarie d'amore” di Pietro Gatti

venerdì 5 marzo 2021

Roberto ci ha lasciati di Vito Elia

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Roberto ci ha lasciati
di Vito Elia


Roberto ci ha lasciati!, chi?, e già, detto così a Ceglie difficilmente qualcuno riuscirebbe ad individuare quella persona che ora non c’è più. C’è un modo però per individuarla con immediatezza e cioè utilizzare la parlata domestica del tipo “nassé ci i muert?...Lubbert!, oppure, a voler essere più  precisi nella identificazione, nassé ci i muert?...Lubbert u puju!”. Ora, mi perdoneranno gli studiosi cegliesi del loro dialetto per le mie insopportabili carenze, rese ancora più evidenti in virtù del fatto che da Ceglie io sono andato via molti anni fa, tant’è che sostenere che il dialetto parlato oggi nella città messapica non è più quello di 50, 60 o più anni fa non è affatto una eresia. Ma il problema adesso non è un affare di lingua, di dialetto o di vernacolo, il problema è che Roberto, per i cegliesi Lubbert (Rubbert?), ci ha lasciati per sempre ed io lo ho appreso con alcuni giorni di ritardo. Una persona semplice Lubbert per i suoi compaesani, poco o addirittura per niente scolarizzata, ma una persona laboriosa e rispettabile, sempre indaffarata, assai disponibile verso tutti. Per i lavori più disparati, i più umili, come fare pulizie, e non importa dove, in casa, in chiesa, presso le cappelle cimiteriali oppure in campagna, a chiunque avesse avanzato richiesta lui rispondeva presente. Ha faticato tutta una vita per portare il pane a casa, e quando avevi bisogno di lui te lo vedevi piombare con il suo vecchio triciclo a motore a scoppio, del tipo Ape Piaggio, di quelli cioè che si possono guidare già a 14 anni e che non richiedono nemmeno il possesso della patente B. 

 Io Lubbert ho cominciato ad incontrarlo e conoscerlo personalmente attorno alla metà degli anni 70, quando cioè lui frequentava la Chiesa Madre, di fronte al Castello ducale. Tuttavia non è di questo periodo che voglio ora parlare, ma di un periodo antecedente, ovvero degli anni sessanta, quando cioè io Lubbert  non lo avevo ancora conosciuto di persona. Qualcuno si chiederà, ed è lecito, come faccio a parlare di lui relativamente a quel periodo. Lo spiego. Lubbert, per quanto figura umile, era paradossalmente una persona “in vista” in paese, per carità non nella accezione più elittuale del termine, come lo sono il sindaco, il parroco, il farmacista di quartiere, ma esattamente come lo sono determinate altre figure umili che, uscendo di casa, non puoi fare a meno di incontrare per strada, quando non in Piazza od in altri punti strategici della città. 

E’ per queste ragioni che mi è dato conoscere, sia pure assai superficialmente, la vita di Lubbert, sin dagli anni sessanta, quando suo papà gestiva una piccola macelleria posta dietro ad un angolo di Piazza Plebiscito. Era lì, all’imbocco di via Pietro Elia, che di buon mattino Lubbert era solito appendere a robusti uncini di acciaio posti all’esterno della lillipuziana macelleria mezzo maiale con la testa in giù, da una parte, e metri di salsicce avvolte a spirale e lunghe budelle riempite ad arte di sanguinaccio, quando non bianca e rugosa trippa bovina dall’altra, mentre  papà macellaio era intento a tagliare e selezionare le carni, tra le anguste pareti di quella minuscola macelleria posta sotto l’imponente maniero che fu dei Sanseverino. Terminata l’esposizione della merce, v’era consolidata abitudine che Lubbert si tuffasse a preparare sin dal mattino prelibatezze, da mettere sui carboni ardenti di un’apposita griglia posta all’aperto, sui primi gradini che si incontrano da Piazza Plebiscito imboccando proprio via Pietro Elia.

Attorno a mezzogiorno o alla sera il clou. Il profumo della carne, gli inebrianti sapori sprigionati dagli gnummariedd, dalle salsicce e dagli spiedini di quella griglia si diffondevano progressivamente per tutta la piazza Plebiscito, e per Lubbert era quello il momento di cominciare a riscaldare le corde vocali, a guisa di cantante lirico prima dell’apertura del rosso sipario. Così mentre il triciclo di “bamminiedd”, un corpulento omaccione, attraversava Corso Garibaldi al grido “one arrivat li cozz, so frisch li cozz” (sono arrivate le cozze, sono fresche le cozze – quelle allora prelibate del mar Piccolo della città dei due mari) accendeva repentina ed orgogliosa risposta dell’allora giovane Lubbert “ariost è cott, ariost è cott, ariost è cootttt!” (in breve, la carne arrosto è cotta). A squarciagola “Ariost è cott, ariost è cott, ariost è cootttt!”, così per anni e anni, finché il papà non ce la fatta più ed ha deciso la chiusura della macelleria. Da lì in poi, come ho avuto modo di anticipare, Lubbert ha riempito le sue giornate di duro ed umile lavoro, dal mattino alla sera, sino a qualche mese addietro, prima di ammalarsi gravemente ed aspettare che i suoi occhi chiudessero per sempre. Oggi Lubbert non c’è più, con lui se n’è andato un frammento, seppur infinitesimale, della storia legata in qualche modo alla ristorazione della nostra città.

Dagli anni 60 del secolo scorso molte cose sono cambiate, tant’è che oggi Ceglie viene da più parti indicata come capitale dell’enogastronomia di Puglia. Tra l’altro, molti i ristoranti e le trattorie e con essi molti i cuochi e gli chef affermati e ormai da tempo premiati, ultra premiati e pure stellati, spesso noti nel resto d’Italia e qualcuno persino nel mondo. A me, a scanso di equivoci, questo dato di fatto mi riempie di orgoglio, né dispiace affatto che alcuni di essi siano osannati pure dalla TV, quantunque sia consapevole di essere cegliese “solo” di nascita e per aver vissuto i primi 20 anni della mia vita nella città messapica.

Ecco, è qui il punto, i miei ricordi focalizzano proprio quel periodo storico della mia adolescenza, quando Ceglie era un tranquillo paese dell’entroterra pugliese, dove il fenomeno della  ristorazione conosciuto oggi era ancora agli albori, sostenuta da alcune trattorie, che chiamavamo “cantine”, dove per bere un bicchiere di vino ti veniva servito qualche pescetto fritto, o al più una “cuppitedda di brodo”, ben lontani cioè dalla realtà di oggi, dalle non poche attività che vantano innumerevoli riconoscimenti di “coltelli e forchette”, di “chiocciole” e persino di “stelle”. E Lubbert?, negli anni 60 c’era già! con la sua rudimentale griglia per cuocere carne per strada, fatta costruire da uno dei non pochi fabbri locali. A quel tempo le “cantine” costituivano la forma embrionale storica di quella che decenni più tardi sarebbe  riuscita a ritagliarsi un posto di tutto rilievo nei grandi circuiti della ristorazione regionale e nazionale. Tutto è nato e si è sviluppato facendo leva sulla fortunata tradizione culinaria della millenaria civiltà contadina e domestica locale, ed è bene che i giovani non lo disconosticano, perché conoscere la propria storia è fondamentale per progettare e costruire il proprio futuro. "Bisogna conoscere il passato per capire il presente e orientare il futuro" lo diceva Tucidide già attorno agli anni 460 404 a.C.. 

In questa ottica, mi pare sia giusto non dimenticare tutti gli attori, per quanto figure umili come quella di Lubbert, che nel passato hanno mosso i primi passi nel campo della ristorazione, dello “street food” in particolare che, proprio per le caratteristiche dei preparati (tra tutti gli gnummariedd), insieme ad altre bontà a forte connotazione locale identitaria come il “panino cegliese”, il “biscotto cegliese” delle storiche botteghe locali, hanno come catalizzato uno sviluppo di un numero sempre crescente di trattorie e ristoranti che, basandosi su una serie di altri genuini prodotti da forno, dell’agricoltura e degli allevamenti locali, hanno permesso alla città di Ceglie di raggiungere un impensabile primato, nel campo eno gastronomico più in generale. Ma c’è un ma, autentica iattura sarebbe se per tale raggiunto primato ci si abbandonasse a dormire sugli allori, invece di pensare al consolidamento, anno dopo anno, non solo puntando su innovazione e contaminazione, ma riscoprendo le radici più profonde, pregne di cultura culinaria di quella millenaria civiltà contadina, sostenuta da innumerevoli invisibili attori, come lo fu il giovane Lubbert che, infastidito dal grido di bamminiedd “one arrivati li cozz, so frisch li cozz!”, dava il meglio di se a squarciagola, intonando il suo solito e convincente ritornello “ariost è cott, ariost è cott, ariost è cottt”. Un invito a pasteggiare quest’ultimo che non sentiremo più, anche perché Lubbert è volato al cielo e non tra una, due o tre stelle, ma in mezzo ad uno sterminato firmamento.

Adieu Lubbert, adieu!, come avrebbe detto Joël Robuchon.