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Na strende m'agghje 'ndise atturne o core / de fueche. Na u fa cchjù, ca pozze more. Da “Nu viecchju diarie d'amore” di Pietro Gatti

martedì 17 settembre 2013

U luate



Lu lliatu (il lievito)
di Armando Polito

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Due ingredienti, però, non sono cambiati: la farina ricavata dal grano prodotto dai miei cognati e lu lliatu (il lievito, quello naturale, detto anche acido o pasta madre o pasta crescente, ottenuto dalla fermentazione spontanea di un impasto di farina ed acqua) che dopo la prima volta, come vedremo, si riproduce da solo …

Non è cambiato neppure il processo di preparazione, ha solo subito un sottodimensionamento, anche negli attrezzi: non dovendo produrre la provvista settimanale una vasca di plastica ha preso il sopravvento sulla mattra (madia) e in essa si mescolano l’acqua calda, la farina e il lievito e lì si lascia che il tutto, coperto da un panno, fermenti. Dopo di che bisogna timpirare, cioè impastare la massa e poi scanarla, cioè lavorarla e dividerla nei pezzi che andranno infornati dopo che hanno stazionato per un tempo adeguato protetti da una manta (coperta).

Ci sono parole la cui etimologia è indiscutibile, mentre ambiguo può essere il processo che le ha portate ad assumere un certo significato; e lliatu è una di queste: nel dialetto neretino è participio passato del verbo lliare che, come il corrispondente formale italiano levare, è dal latino levare=sollevare (a sua volta da levis=leggero, lieve) con passaggio -e->-a-, sincope di -v- e raddoppiamento di l-, che credo, in questo caso, di natura espressiva, senza pensare al composto adlevare (levare>*livare>*liare>lliare).

Ma lliatu è usato, come ho detto, anche nel senso sostantivato di lievito. Questo slittamento semantico appare chiaramente in linea con la voce latina, poiché la lievitazione comporta un aumento di volume, un rigonfiamento e un sollevamento della massa che la subisce. Lo stesso italiano lievito suppone la derivazione da un latino *lèvitum invece del classico levàtum, participio passato del citato levare e va detto che, almeno in questo caso, la voce dialettale è più fedele al latino letterario di quanto non lo sia la voce italiana che appare, invece, derivata dal latino parlato6.

Ma lliatu come participio passato sostantivato usato nel senso di lievito è totalmente sganciato dall’idea di togliere con cui levare oggi (sono ormai lontani i tempi di Leviamo lieti i calici …) è per lo più usato? Direi di no sulla base dell’osservazione che l’impasto al quale si è aggiunto un pezzetto di pasta madre è quasi un embrione, cioè una vita che può continuare o finire. Nel caso dell’embrione  tutto ancora dipende dalla decisione della coppia o della sola madre, nel nostro  tutto dipendeva dalla massaia o dal fornaio. Ho usato l’imperfetto perché la pratica di fare il pane in casa usando come lievito un pezzo di pasta madre levato all’impasto precedente è un ricordo del passato (che in casa mia si rinfresca quasi solo in occasione delle feste più importanti) e solo poche panetterie usano questa pratica per pani definiti, giustamente, speciali, non tanto, forse, per il sapore, quanto per il prezzo …

E allora a me piace pensare che lliatu partecipi quasi contemporaneamente dell’idea del levare (che non è un atto di violenza ma d’amore perché garantisce la perpetuazione del pane) ma anche del sollevare che è poi quella più appariscente, materiale, ma non per questo più profonda, del lievito.

Non so quanto questo possa aiutare un giovane a capire meglio perché in passato era un sacrilegio buttare un pezzetto di pane, anche se raffermo (No ssi mena la crazia ti lu Signore=non si butta la grazia del Signore!); non si buttava neppure il pane ammuffito, anzi si diceva ai bambini che mangiando quest’ultimo gli sarebbero spuntati i denti d’oro.  Dubito che gli antichi avessero intuito prima ancora di Fleming le proprietà benefiche di certi funghi (nella fattispecie la muffa del pane) …, ma ho quasi la certezza che i funghi e le muffe del pane di oggi producano ben altri effetti, per cui buttarlo in questo caso non sarebbe un atto riprovevole né tanto meno, se ciò fosse previsto dall’ordinamento, perseguibile, perché dettato dalla necessità di salvezza del corpo (status necessitatis); l’anima, anzi l’animo,  può aspettare.

Chi e che cosa mi hanno ispirato alla fine questo profondo (!) excursus giuridico (!!) sull’agibilità, anche se non politica, filosofica (!!!) del mio ragionamento, lo lascio indovinare a chi ha avuto la pazienza di seguirmi fin qui … certo è che il pane è stato lasciato a lievitare pure troppo, è tempo di infornarlo; ma, attenzione!, bisogna estrarlo quando è carbonizzato, come quello di Pompei, ma ho i miei dubbi che i fornai nella fattispecie siano all’altezza …

E chiedo scusa alla crazia ti lu Signore per averla usata in una similitudine; in fondo, metaforicamente parlando, no ll’aggiu minata (non l’ho buttata).
Fonte 


Neretino         Cegliese       
Lu lliatu U luate
timpirare Trumpà
scanarla Stricà



In cegliese luate oltre che lievito ha anche il significato di tolto( participio passato di togliere)  e di passaggio (attraversamento)  in un muro a secco.