Teatro a tutti i costi
Giovedì 30 ottobre Ceglie Messapica
Capatosta
scritto da Gaetano Colella
regia Enrico Messina
con Gaetano Colella e Andrea Simonetti
composizione sonora Mirko Lodedo, scene Massimo Staich, disegno luci Fausto Bonvini, datore luvi Vito Marra, foto di scena Lorenzo Palazzo, in collaborazione con Armamaxa teatro.
Siamo nello stabilimento più grande d’Europa, l’Ilva. Siamo in uno dei tanti reparti giganteschi della fabbrica, Acciaieria 1 reparto RH. Qui l’acciaio fuso transita per raggiungere il reparto della colata e gli operai sono chiamati a controllare la qualità della miscela. La temperatura è di 1600 gradi centigradi.
Due operai sul posto di lavoro. Il primo è un veterano, venti anni di servizio alle spalle e un carattere prepotente, di chi si è lavorato la vita ai fianchi e il poco che ha lo difende coi denti, compreso il suo piccolo
desiderio: fuggire da Taranto, coi suoi figli, per non tornarci più. Il secondo è una matricola, un giovane di venticinque anni appena assunto nello stabilimento. I due potrebbero essere padre e figlio.
In questo stabilimento dal 1962 ci sono generazioni di operai che si avvicendano, si confrontano, si scontrano e si uniscono. I padri hanno fatto posto ai figli e ai nipoti senza che nulla sia intervenuto a modificare questo flusso di forza lavoro. Si sono tramandati saperi ed esperienze così come usi e abusi, leggi tacite e modi di fare. Sembra che in questo
scenario nulla sia destinato a mutare, che i figli erediteranno fatica e privilegi dei padri. Ma è davvero così?
Nuova drammaturgia, teatro civile… etichette possibili per una urgenza che non vuole essere chiusa o bollata con un’etichetta, ma vuole essere un prendere parola, restituire un sentimento di dolore e di impotenza insieme, condividendolo con una città e non solo, come solo il teatro può fare. Solo i gesti, i volti, le voci di attori possono riuscire a raccontare il sangue di una città ferita e divisa. Oltre l’informazione.
note di drammaturgia
Lavoro a Taranto da tanto tempo. La mia Compagnia abita il quartiere Tamburi da più di cinque anni. Abbiamo un teatro a poche centinaia di metri dallo stabilimento siderurgico. Viviamo quotidianamente gli odori, le polveri, i rumori, le nubi spettacolari che si levano, ma anche le testimonianze, le storie e tutte le chiacchiere inutili dette e scritte su questa città, su questo disastro ambientale, su questa gente. Io, per raccontare quello che sta avvenendo, sono andato a parlare con gli operai. Solo loro potevano restituire la dimensione del dramma, di quella frattura irreconciliabile fra salute e lavoro che si sta vivendo in maniera sempre più violenta negli ultimi mesi. Solo così ho capito che il mondo operaio non è come lo vediamo in tv, quando scorrono quelle interviste in cui sono schierati di fronte alle telecamere con gli elmetti in testa e la faccia incazzata. Non è un blocco unico di coscienze allineate su una posizione. Ho trovato invece un universo pieno di uomini soli, spesso sbandati, che non sanno esattamente cosa fare né cosa sarà di loro, che non hanno punti di riferimento, che non conoscono i loro diritti e altri pronti a inventarne di nuovi; un universo profondamente lacerato da posizioni molto distanti, fra chi medita soluzioni, chi vendette, chi rancore, chi invece non se ne frega niente come non se n’è mai fregato. Chi pensa di scappare via, chi di lottare. E da queste figure che sono nati i due personaggi di questa storia. Perché incarnano lo spirito di una comunità intera e, probabilmente, di tutta la nostra nazione lacerata fra l’indifferenza da un lato e la voglia di cambiare dall’altra.
Gaetano Colella
note di regia
L’impatto quando ci arrivi di notte dalle colline del nord Brindisino è stupefacente. Un corpo unico: si confondono la fabbrica e la città, si mescolano, si compenetrano. Sembrano amanti distesi sul golfo in un abbraccio che pare non possa sciogliersi mai. A guardare gli sbuffi, le improvvise gigantesche nuvole di fumo che si alzano dai camini sembra di sentire il respiro affannoso del loro amplesso; il respiro delle molte vite che li abitano, li fanno vivere, li nutrono e se ne nutrono da generazioni. Generazioni, che si succedono, e scorrono in quei due corpi come sangue vivo. Padri, madri, figli. Ma quando ci arrivi di giorno, dalle stesse colline, il panorama cambia. L’abbraccio sembra trasformarsi in una morsa, un morso anzi. Soffocante. I camini altissimi, le immense costruzioni dei corpi della fabbrica, gli spazi sterminati occupati da distese di coils che non ce la fai a contarli, sono invadenti, la schiacciano la città, la costringono in un angolo; alle corde. Velano tutto di un rosso che non sa risplendere, polvere di una passione ormai sbiadita; di una promessa non mantenuta. E quell’abbraccio allora svela le contraddizioni, il tradimento, le divisioni ormai profonde e le lacerazioni di quei corpi che non si amano più. Generazioni che per troppo tempo non si sono parlate, si sono tradite. Padri che hanno scelto per i figli; madri che non hanno saputo lasciarli andare. Figli che, mollemente, si sono adagiati a subire il quotidiano senza speranza di una storia finita ma che non si risolve mai.
La luce del giorno è crudele, spietata, non lascia spazio al dubbio: il fumo dei camini è veleno, le costruzioni degli impianti sono “bruttezza”, il corpo della città disfatto, cadente, malato. Bisogna che qualcosa accada, che si rompa quel precario equilibrio eppure immoto. Bisogna che si separino gli amanti. Bisogna che si scontrino quei padri e figli. Bisogna. E per farlo serve che qualcuno cominci a urlare.
Enrico Messina